STOREP CONFERENCES, STOREP 2018 - Whatever Has Happened to Political Economy?

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Karl Polanyi and the semantics of money. Critical notes on Menger's monetary theory
Riccardo Evangelista

Last modified: 2018-06-20

Abstract


Introduzione: i punti di partenza di Polanyi

James Ronald Stanfield, in un interessante articolo in cui cerca di tirare le somme sulla rilevanza dell’opera di Karl Polanyi per il pensiero economico contemporaneo, scrive: «Gli economisti, non riuscendo a scorgere le alternative concrete al mercato nel passato, non sono in grado di prospettare le alternative al mercato nel futuro»[1]. Sembra una buona sintesi.

Nella sua articolazione eclettica, il pensiero di Karl Polanyi ha effettivamente compiuto un ambizioso tentativo di decostruzione delle categorie economiche ortodosse per dimostrarne la funzione implicitamente ideologica, ossia di giustificazione dell’ordine economico di mercato, nell’ambito del quale sono nate e si sono sviluppate. Come è noto, nell’impresa Polanyi si è avvalso in modo decisivo degli studi antropologici, attraverso i quali ha evidenziato come altre organizzazioni economiche apparse nella storia delle società umane seguano principi di funzionamento non assimilabili a quelli del mercato, anzi spesso ad esso antitetici.

Il concetto di modo di integrazione dell’economia della società che ne deriva mette in seria difficoltà l’impianto analitico della teoria neoclassica: le modalità in cui avvengono la produzione e la distribuzione dei beni materiali non vanno spiegate a partire dall’ipostatizzazione di un certo comportamento individuale, ma dipendono dal modo in cui l’economia è istituzionalmente integrata nella società. Gli economisti, ci ricorda quindi Polanyi[2], guardando indietro avvalendosi delle categorie analitiche del mercato, leggono il passato attraverso principi potenzialmente validi solo per la nostra società (ma, a dire il vero, molto limitativi anche per analizzare quest’ultima).

Ne La grande trasformazione, l’opera di Polanyi più nota, è dettagliatamente spiegato come il mercato autoregolato (ossia diretto solo dai prezzi) sia tutt’altro che l’esito dello sviluppo naturale di un processo spontaneo e cumulativo o, come direbbe Friedrich A. Hayek, il risultato inintenzionale di azioni intenzionali. Al contrario, la pretesa di organizzare la produzione e la distribuzione sulla base delle sole leggi domanda e dell’offerta è un’eccezione clamorosa nella storia delle società umane. L’affermazione del mercato è infatti avvenuta nell’arco di un paio di secoli attraverso un doloroso processo di mercificazione, politicamente guidato, del lavoro, della terra e della moneta.

Polanyi definisce pertanto un fantasma il determinismo economico della teoria economica ortodossa[3], che induce a vedere leggi naturali dove in realtà ci sono fatti storici. È un’ombra senza sostanza che aleggia nelle nostre teste, condizionando però pesantemente le soluzioni economiche che l’uomo può escogitare per trovare soluzioni alternative ai problemi materiali del proprio tempo. Tra questi, l’uso discrezionale della moneta per supportare l’attività produttiva e rendere socialmente sostenibile il processo economico è senza dubbio uno dei più rilevanti.

 

Dalla critica al gold standard alla semantica della moneta

Tra le tre merci fittizie, la moneta è quella che occupa il posto più problematico nell’analisi della società di mercato compiuta da Polanyi.

Il punto di partenza è ancora La grande trasformazione, in cui è contenuto un giudizio netto sul gold standard, il sistema monetario internazionale istituito in Inghilterra col Bank Act del 1844 e formalmente resistito fino al 1914. Ad avviso di Polanyi, il gold standard ha sancito la completa affermazione del liberalismo economico nella misura in cui ha sottratto allo stato il controllo della moneta, riducendo la disponibilità di quest’ultima a un presunto automatismo. Nell’affermazione generalizzata del mercato un tale sistema è risultato ancora più decisivo della riduzione in merce del lavoro e della terra in quanto ha sottratto allo stato qualsiasi strumento per difendere l’economia dalla deflazione e quindi dagli squilibri sui primi due mercati. È diventato, in altri termini, una vera e propria camicia di forza a tutela dell’ordine garantito dal libero funzionamento del sistema dei prezzi. In questo senso, la stabilità della moneta rappresenta la più completa espressione del fanatismo religioso che Polanyi individua nel liberalismo economico e che si dispiega con veemenza proprio nei momenti di maggiore crisi del mercato autoregolato, quando cioè il suo funzionamento è messo in discussione dalla reazione protettiva della società, che lo studioso ungherese definisce doppio movimento:

Con la base aurea internazionale veniva messo in atto il più ambizioso schema di mercato implicante l’assoluta indipendenza dei mercati dalle autorità nazionali. Il commercio internazionale significava ora l’organizzazione della vita del pianeta in un mercato autoregolato che comprendeva lavoro, terra e moneta, con la base aurea a guardia di questo gigantesco automatismo. Nazioni e popoli erano semplici marionette in uno spettacolo completamente estraneo al loro controllo[4].

Il gold standard venne ufficialmente abbandonato nel 1914, ma di fatto le sue regole furono più volte aggirate senza destare scandalo, dimostrazione, sostiene Polanyi, della sua insostenibilità secondo la forma ideale architettata dai suoi sostenitori.

Eppure, negli anni tra le due guerre, gli economisti liberisti, primi fra tutti Mises e Hayek, continuavano a sostenere che per difendere l’economia dall’inflazione e dalla degenerazione dell’intervento pubblico occorresse sottrarre la moneta al controllo statale: tornare all’oro sarebbe stata una scelta necessaria per ridare stabilità a un sistema ostaggio di interessi particolari. Il giudizio di Polanyi al riguardo è lapidario: «Se si fosse ascoltato il suo consiglio [di Mises, ndr], esso avrebbe trasformato le economie in un mucchio di rovine»[5].

A questo punto, alcune domande sembrano necessarie per approfondire la visione polanyiana della moneta, in particolare così come contenuta ne La grande trasformazione. Esiste, al di là della ricostruzione storica, una teoria della moneta in Polanyi, o la sua analisi monetaria è solo un riflesso della critica insieme etica e politica al mercato autoregolato? Se esiste, come va definita e quale funzione svolge nella sua struttura analitica? Infine, a quali teorie si contrappone e con quali obiettivi?

In accordo con quanto sostenuto recentemente da Hadrien Saiag[6], per comprendere le implicazioni, ma anche i presupposti, della concezione che Polanyi ha della moneta bisogna fare una distinzione cronologica e contestualizzare la sua analisi. Ne La grande trasformazione, infatti, la critica al gold standard si fonda, seppur implicitamente, in larga parte sulla teoria cosiddetta cartalista elaborata da Karl Knapp nel 1923, conducendo a una visione dicotomica della moneta stessa (la moneta merce contrapposta alla moneta segno). Nelle opere successive, in particolare in alcuni capitoli di Traffici e mercati negli antichi imperi (1957) e soprattutto nei volumi, pubblicati postumi, Economie primitive, arcaiche e moderne (1968) e La sussistenza dell’uomo (1977), l’analisi si arricchisce e propone novità rilevanti che chiariscono e allargano la precedente critica al gold standard.

Avvalendosi di approfondimenti antropologici riguardanti un ampio numero di società primitive o antiche e coerentemente con gli scopi decostruzionisti del suo pensiero, Polanyi arriva infatti a definire la moneta come un sistema semantico, ossia un insieme di significati che, al pari del linguaggio e della scrittura, possono essere correttamente interpretati solo alla luce della funzione da essi svolta all’interno delle specifiche società che contribuiscono a delineare.

Al riguardo, lo studioso ungherese nota che solo in un sistema di mercato la moneta ambisce ad avere una semantica uniforme, ossia un’applicabilità a tutti gli scopi normalmente riscontrabili (mezzo di scambio, mezzo di pagamento, misura e riserva di valore) a partire da una sola funzione, quella di mezzo di scambio, da cui scaturiscono automaticamente tutti gli altri impieghi, che nel primo trovano fondamento. Nelle economie diverse da quelle di mercato, invece, le semantiche della moneta sono varie. Vengono cioè riscontrati diversi significati e definizioni della moneta a seconda della loro particolare funzione. Ad esempio, un tipo di bene può fungere da moneta per quanto riguarda l’estinzione di un’obbligazione verso l’amministrazione pubblica, ma non può essere usata come mezzo di scambio. Può esistere, quindi, moneta scambio di mercato, a dimostrazione della sua determinazione istituzionale. La moneta, cioè, si presenta sempre come un rapporto sociale e la sua funzione può essere spiegata solo dall’osservazione del suo specifico impiego in ogni società.

Attraverso le ricerche sugli impieghi della moneta nelle società diverse da quelle di mercato, Polanyi si pone in implicita ma diretta polemica con le teorie monetarie della scuola austriaca, a partire dall’opera capostipite, On the origins of money di Carl Menger, pubblicata nel 1892. In questo breve ma significativo scritto è contenuta una visione della moneta fondata sull’individualismo metodologico che caratterizza tutto l’approccio mengeriano alla teoria economica. La moneta viene cioè definita come una soluzione escogitata dagli individui per sopperire alle complicazioni del baratto, riducendo i costi di transazione. L’effetto diretto è stato la diffusione del mercato a più ampia scala, processo che continua fino a che la moneta in quanto mezzo di scambio lo rende possibile.

Come spiegano Mario Seccareccia ed Eugenia Correa[7], la sequenza storica individuata da Menger è grosso modo la seguente: baratto - invenzione della moneta - differenziazione e perfezionamento dell’economia di mercato. La moneta nasce e si sviluppa dagli atti individuali di scambio, divenendo un mezzo per facilitarli e permettendone la diffusione a scala sempre più ampia. In questo processo il ruolo dello stato è del tutto secondario e ammissibile solo in un secondo momento, quando cioè si fa garante del corso legale delle monete coniate. Anche l’uso dell’oro o dell’argento è, ad avviso di Menger, una pratica sorta spontaneamente a partire dagli scambi e spiegabile per le qualità intrinseche dei metalli preziosi, tra le quali la divisibilità, la durabilità e la portabilità.

 

La vana ricerca austriaca sulla natura e l’essenza della moneta

A cosa porta la contrapposizione tra la teoria monetaria di Polanyi, definibile istituzionalista nei suoi principi essenziali, e quella di Menger, perno dell’individualismo metodologico?

L’ipotesi è che la ricerca mengeriana sulle origini della moneta, poi perfezionata da Mises e da Hayek, trova la sua spiegazione nel determinismo economico connaturato al liberismo austriaco. Dimostrare, infatti, che la moneta ha origine e si sviluppa separatamente dallo stato significa, presupponendo una cornice analitica caratterizzata dall’evoluzione naturale del modello di mercato, che l’interferenza pubblica nella gestione monetaria rappresenta un abuso, storicamente inaudito ed economicamente deleterio.

L’operazione di Menger soffre proprio di quella fallacia economicista che Polanyi rimprovera continuamente a tutta la teoria economica ortodossa: proiettando all’indietro modelli sottostanti il mercato autoregolato, come appunto la moneta-merce, si compie un’operazione metodologicamente illegittima e non si fa che reificare una forma storica determinata, elevandola a modello ideale. Nella teoria monetaria austriaca è quindi rintracciabile nella sua massima aspirazione il tentativo, tipico del liberalismo economico, di ricondurre ogni realtà all’interno del proprio modello concettuale, annullando così le differenze sostanziali e le istanze trasformative in esse contenute. Con un termine molto suggestivo, Polanyi definisce l’operazione teorica solipsismo economico.

Emerge così il significato opposto che la ricerca storica sulla moneta ha in Menger e in Polanyi: se nel primo contribuisce a giustificare la conservazione delle prerogative tipiche del mercato autoregolato, in particolare la separazione tra stato e processo economico, nel secondo è un cruciale tentativo per dimostrare che «la moneta è un sistema incompletamente unificato» e «la ricerca di una sua unica finalità è un vicolo cieco»[8]. Polanyi, in altri termini, non contrappone una teoria monetaria a quella austriaca, ma denuncia il tentativo di legittimare una politica economica sulla base di presunte ricerche sulla «natura e l’essenza» della moneta perché, semplicemente, queste non esistono.

La funzione della moneta, essendo istituzionalmente determinata, non è quindi riconducibile, se non in un’economia fondata sull’ideale dell’autoregolazione, alla sola mediazione nello scambio. In altri termini, natura ed essenza della moneta possono essere fittiziamente rintracciate solo se si proietta all’indietro, fino alla notte dei tempi, il modello del mercato autoregolato.

[1] A. Salsano (a cura di), Karl Polanyi, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 165.

[2] Cfr. K. Polanyi, L’economia come processo istituzionale, in K. Polanyi (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, 1978 (1957), pp. 297-331.

[3] Cfr. K. Polanyi, Sulla fede nel determinismo economico, in M. Cangiani e C. Thomasberger (a cura di), Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963, Jaca Book, Milano, 2015.

[4] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2013 (1944), p. 276.

[5] Ivi, p. 249.

[6] Cfr. H. Saiag, Towards a neo-polanyian approach to money: integrating the concept of debt, in «Economy e Society», Routledge, n. 43, 2014, pp. 559-581.

[7] Cfr. M. Seccareccia, E. Correa, Supra-National Money and the Euro Crisis: Lessons from Karl Polanyi, in «Forum for Social Economics», Routledge, 46:3, 2017, pp. 252-274.

[8] K. Polanyi, Semantica degli impieghi della moneta, in K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, a cura di G. Dalton, Einaudi, Torino, 1968, p.170.


Keywords


Polanyi; Menger; semantics; monetary theory

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